Da qualche stagione sono tornati in auge, in vacanza come in città. Sexy e rock in denim, maliziosi e innocenti in pizzo o sangallo pastello, gli hot pants si confermano come il must dell’estate.
Hanno ormai perso la loro carica trasgressiva, condannati al fondo dell’armadio a intervalli quasi regolari. Il remake degli hot pants anni Settanta è passato naturalmente attraverso l’evoluzione della moda, come è avvenuto per altri capi che sono nati nei momenti di contestazione.
Un decennio dopo l’avvento della minigonna, ecco un’altra provocazione, fatta di sottrazioni e seduzione: gli hot pants divennero di moda, e il termine venne creato nel 1970 dal Women’s Wear Daily. In realtà erano apparsi molto tempo prima. La prima donna a indossarli in pubblico fu una tennista nel 1933 a San Francisco dando il via a una consuetudine del tutto normale in ambiente sportivo.
Anche le dive di Hollywood e le formose pin up spesso erano ritratte con pantaloncini, confinandoli tuttavia a contesti sportivi o “vacanzieri”, collocazione praticamente naturale. Anche Emilio Pucci li aveva creati nel 1956, coloratissimi, mentre nel 1969 anche Yves Saint Laurent si cimentò nella creazione di pantaloncini, in cotone.
I tipici hot pants Anni Settanta erano in denim, spesso frutto del fai-da-te, sacrificando vecchi blue jeans, per essere in linea con le ragazze più audaci. La lunghezza era ridotta ai minimi termini, scendeva pochi centimetri sotto l’inguine, scoprendo completamente le gambe, spingendo l’ostentazione del corpo oltre la mini di Mary Quant, che comunque stemperava ogni pruderie con calze spesse, geometrie optical, dando un’immagine femminile comunque sofisticata.
Tutt’altro genere di evocazione quella degli hot pants, considerati pericolosi e condannati dai benpensanti.
In Italia, dove anche il bikini aveva tardato ad affermarsi a causa delle reticenze perbeniste e cattoliche della società del dopoguerra, una turista danese in vacanza a Palermo nel 1971 fu fermata mentre passeggiava per il capoluogo siciliano con i ridotti pantaloncini e accompagnata al commissariato.Secondo l’articolo 726 del codice gli atti contrari alla pubblica decenza dovevano essere sanzionati e indossare un paio di hot pants era considerato uno scandalo.
Seguirono altri casi di turiste straniere costrette a rendere conto alla giustizia per il fatto di indossare un capo troppo provocante
Già allora la provocazione poteva essere sfruttata per fare scalpore, e la Moda non si lasciò sfuggire l’occasione. Nel 1973 infatti ci fu un caso clamoroso di dichiarata provocazione, usando proprio un paio di hot pants indossati da un’avvenente modella.
Il marchio italiano Jesus, prodotto da un’azienda torinese: il Maglificio Calzificio Torinese SpA. La società piemontese affidò al giovane Oliviero Toscani una campagna pubblicitaria, sfiorando la blasfemia. Una frase del Vangelo impressa su un fondoschiena fasciato da attillatissimi shorts in denim, giocando con l’evidente assonanza del marchio. “Chi mi ama mi segua”.
Dopo alterne vicende, da qualche stagione sono tornati prepotentemente alla ribalta. Tuttavia nessuna trasgressione è possibile ormai, tranne la forte decontestualizzazione.
Unica novità è forse il fatto che gli hot pants sono spesso usati anche in inverno e sicuramente una maggiore “democratizzazione” che oggi non limita più l’uso degli hot pant a ragazze giovani con gambe perfette, ma, un po’ per ansia di libertà a tutti i costi, un po’ perché alla moda difficilmente si rinuncia, si vedono circolare hot pants senza limiti di età o di taglia.
L’unica variabile di cui tenere conto dovrebbe tuttavia essere il famigerato “buon gusto”, ma definirlo oggettivamente non è possibile.
Anche questa è libertà.